Archivio mensile:febbraio 2012

Ai miei ricordi e a quelli di altri: in memoria.

In questi giorni, nel lento processo di riavvicinamento a me stesso che sto compiendo, ho pensato a lungo. Ho rimeditato il concetto di male e la sua banalità e, al contempo, ne ho rivalutato la positività.

Stamane ho riguardato nell’archivio complesso della mia produzione scritta e ho riaperto, dopo qualche tempo, la cartella dove conservo i miei ricordi con mio zio Gino. In questi anni, pur avendone pronunciati a voce alcuni, non ho voluto pubblicarli né darne copia. Ho voluto conservarne per me l’amore, quasi schiacciato da esso e dal pudore che genera.
Però, in realtà, il mio pensiero è sempre con lui e il pudore di un ricordo possente, forse, non può costringere al silenzio. Semmai il suo peso, la voglia di liberarlo, serve anche a renderlo vivo e a vivificare noi stessi.

In questi giorni sarebbe stato il suo compleanno. Domani inizia la Quaresima e, come mi ha ricordato una amica cara, anche io avverto il bisogno di tornare alla “cenere in testa e acqua sui piedi”. Per questo lascio qui, su questo muro, questo testo. Si tratta di un ricordo ufficiale letto durante la cerimonia Tre pilastri della comunità di Sant’Andrea. Veglia di preghiera in ricordo di Mons. Salvatore Santeramo, don Pasquale Marchisella, don Luigi Spadaro, svoltasi nella Chiesa di Sant’Andrea, appena riaperta dopo il restauro, venerdì 11 dicembre 2009.

Lo pubblico, volutamente monco della parte finale, perchè è parte di me e di molti altri. Nella parte eliminata riflettevo sul nostro ruolo di comunità nella nostra città e mi rivolgevo a don Pino e alla Chiesa locale. L’ho tagliata perchè, vista la libera interpretazione dei testi, non mi va che possa, soprattutto oggi, essere strumentalizzata; nel contempo, nel testo odierno e a tre anni di distanza, non ha più senso.

Lascio questo scritto alla rete e soprattutto a chi, in questi anni, è stato ed è ancora oggi comunità con noi famiglia e con me. Lo lascio, altresì, a quanti vorranno chiedere al proprio pudore di liberarsi.

Buona Quaresima.

Ricordo di don Gino Spadaro (1950-2006)

«Sono entrato a Sant’Andrea in un giorno che non ricordo, mille anni fa. Sono rientrato a Sant’Andrea due anni fa e poi l’anno scorso. Sono entrato a Sant’Andrea ieri.

I posti che ami spesso rischiano di restare oscuri nella tua mente. Un ricordo può certamente fortificare. Si può addensare a mille altri, agli odori e alle parole, ai suoni e alla vista, al tatto. Un ricordo può essere tanto forte da schiacciare il presente, in un eterno passato che si ripercorre passo dopo passo nel buio di una chiesa chiusa quando non doveva esserlo, aperta troppo tardi, nuova di zecca, come fosse il luogo che non deve essere più.

Sono entrato diverse volte a Sant’Andrea in questi anni. Ho potuto vedere le ossa, i teschi, le camere mortuarie, i buchi sul pavimento, la chiesa con le assi a saltare da un posto a un altro e noi piccoli equilibristi spauriti e sperduti nel luogo del ricordo. Ho a lungo pensato a cosa sarebbe potuto essere con don Gino in vita. Ho a lungo, in realtà, saputo con assoluta certezza cosa sarebbe potuto essere con don Gino in vita. E grazie al cielo sto parlando di mio zio, perchè farlo di altri non avrebbe, oggi, lo stesso peso.

In questi anni l’immagine che ho di mio zio, fissa, nella mia testa, è quella di qualche ora prima che morisse. Io, insieme a troppi altri, in un reparto di rianimazione ormai familiare, sebbene di un ospedale a lungo evitato. Io alla testa del suo letto, in silenzio, come sempre. Io che chiamo don Vito e gli chiedo l’ultima Eucaristia e l’ultima benedizione.
I suoi occhi fissi nei miei, consapevoli. Smagrito, sofferente, impaurito. La morte, per quanto la si possa attendere e accogliere, travolge sempre. La morte spaventa. L’attesa della morte fa in modo che il silenzio sia sempre un completo, continuo ciarlare di ciò che più profondo è nel nostro cuore, riservato solo a chi si ama realmente. Chi sa stare in silenzio ad attendere la morte, chi sa stare in silenzio ad accompagnare la morte, sa di cosa parlo. Si chiama amore: profondo, pieno, caritatevole e speranzoso e, per chi ne ha il dono, fede.
Le speranze di quel momento in don Gino Spadaro sono tutte racchiuse in quell’attesa.
L’attesa si chiama morte. L’attesa si chiama Resurrezione. E a noi attorno a lui parlava, a lungo, dicendoci: “non abbiate paura”. Paura noi ne avevamo. Tanta.

Mio zio Gino se n’è andato nella notte tra il 10 e l’11 agosto 2006. Accanto a lui suo fratello, Michele.
É come quando nasci: c’è sempre qualcuno che ti conosce già e che spesso il Signore ti pone accanto anche nell’ora della risalita a Lui. Mio zio Michele è stato il primo e l’ultimo testimone della vita terrena di suo fratello.

Chi era don Gino Spadaro? A questa domanda è talmente difficile rispondere. Quando mi è stata affidata questa testimonianza mi sono a lungo chiesto, come faccio sempre, cosa scrivere, come scrivere. Ma la domanda iniziale, quella che immediatamente ha riempito il cuore, lo stomaco, i reni, è stata per la prima volta: perchè?
Confesso il mio malessere questa sera. Lo confesso come si fa nel segreto del sacramento ben sapendo che questa sera noi tutti qui stiamo celebrando una sorta di sacramento: è il sacramento della riconciliazione. Questa sarà la mia testimonianza di stasera.

I ricordi che in una testimonianza come questa possono essere pronunciati sono quelli dell’insegnamento, prima di tutto. É naturale che sia così. Lo è perchè don Gino non è né Santeramo né Marchisella. Essi sono già storia. Don Gino Spadaro è ancora presente. Si trova in quel limbo di coscienza ancora troppo vincolata alle emozioni e impossibile da scardinare.
E l’insegnamento per me parte proprio dal suo testamento spirituale e da quanto egli stesso scrisse per me, i miei fratelli, mia madre, i miei zii e cugini:

“Alla mia famiglia: mio orgoglio più sano, mia radice profonda, balbettio della mia fede, evidenza di amore che si dona, culla della mia vocazione, siate contenti che io vi consegni al Cuore di Cristo al quale racconterò che a me avete dato senza nulla chiedermi, e che solo vostro compenso fu e sarà ancora l’avermi avuto per fratello e zio “sacerdote”.

Sono parole che solo noi possiamo comprendere pienamente. Perchè ancora oggi noi stessi, tra noi, siamo evidenza di amore che si dona.
Mi sono chiesto a lungo: cosa significa amare? Ne avevo parlato con lui, quando gli confessavo le mie ansie più nascoste, i miei timori, tutto ciò che l’umana natura rende incerto. Il suo insegnamento è stato amore. E amare significa prima di tutto amare se stessi, conoscersi, sapere anzi, avere la certezza di conoscere perfettamente cosa si è disposti a mettere in gioco. Perchè nel momento nel quale si è pronti ad amare, si abbandona il sé per divenire Altro.
E così il primo ricordo che ho di mio zio è alla discesa da un aereo. Lui attendeva, io, bambino, salivo tra le sue braccia per non scendere più.
É lì che è cominciata la immensa gioia della sua presenza. In modo semplice, come solo le persone con cuore grande sanno fare. Si dona amore e l’amore, per il solo fatto di donarlo, è già ciò che più di tutto genera sofferenza perchè, quando esso è puro, diretto, semplice, esso è già Altro. É l’intero dono di sé, senza nulla da chiedere o pretendere. É la Parola che si fa gesti e testa. É l’abbandonare se stessi per dare vita.
E dunque se oggi dovessi dire cosa è stato per me mio zio direi Amore: totale, incondizionato, viscerale, libero.

Ecco un’altra parola che torna ogni volta che penso a lui o ne parlo: libertà. Quante volte abusiamo anche di questa parola. La società contemporanea ne ha fatto un vessillo da innalzare, moderna ideologia alzata sulla montagna delle nostre ipocrisie. Ma cosa significa realmente essere liberi? Prima di tutto significa sapere riconoscersi nei propri limiti di uomini. Le debolezze sono il pane della libertà. Paradossalmente il peccato è il nutrimento della libertà di ognuno. Non ci si deve scandalizzare. Sta nell’accogliere il peccato tra noi, riconoscerlo e farlo talmente proprio da allontanarlo, naturalmente e senza timore, la libertà di ognuno di noi. É sostanzialmente questo un processo che non può essere volgarizzato nella semplice azione compiuta. Quello è già un processo successivo e può dirsi errore o, se attuato consapevolmente, può dirsi peccato pienamente. Ma tutto sta in quel “consapevolmente”. Io, uomo, posso sbagliare. Ma è quando lo faccio in pienezza di coscienza che faccio del male e divengo io stesso male. Potremmo discutere a lungo su cosa sia male e cosa non lo è (e molti in questa chiesa presenti stasera sono convinto avranno a lungo discusso con don Gino proprio di queste cose). Ma la verità è che essere liberi significa coscientemente conoscere e comprendere se stessi e vivere secondo coscienza. Ecco perchè don Gino non giudicava il nostro tempo, non si schierava politicamente confondendo l’altare con il palco di un comizio, non parlava mai per primo ma ascoltava, non giudicava ma accoglieva, non si ostinava nella propria convinzione ma la discuteva continuamente. Potrei dire che in un processo filosofico egli fosse in continuo inveramento, per usare un termine hegeliano. E la cosa più bella è che questo suo continuo processo intellettuale veniva naturalmente trasmesso a chi gli stava attorno come una naturale conseguenza della tensione dell’uomo verso Cristo.

Ecco la terza parola: Cristo.
Chi conosce bene il cristianesimo, chi ne fa un processo di comprensione prima che di bieca accoglienza o fede tradizionalmente indiscriminata, chi ne ricerca profondamente i significati, sa che comprendere Cristo significa amare nella pienezza della propria libertà. Nell’ospedale di San Giovanni Rotondo, quando ci dissero del suo male, egli con un sorriso lo accolse perchè sapeva che in quel preciso momento era stato chiamato a salire sulla croce insieme a Cristo, a portarne i segni, ad essere egli stesso testimone diretto di una vicenda mille volte scritta nella storia dell’umanità. Sì, ad essere egli stesso Cristo sofferente sulla croce. É proprio questo il paradosso, che è poi il paradosso del cristianesimo. Un uomo che libera sé stesso e l’umanità dal male attraverso il completo sacrificio sino alla morte di croce e lo fa sapendo bene che quella croce significa amore. Il paradigma da evidenziare sta proprio in questa completa sofferenza da donare all’uomo come testimonianza dell’amore di Dio verso i suoi figli.
É proprio questo l’insegnamento che dalla vicenda della malattia di mio zio deve arrivare: non si può vivere la sofferenza offendendo l’uomo, allontanandolo, emarginandolo, o semplicemente vergognandosi di essa. Vivere così significa non riconoscere nel prossimo il Signore. La sofferenza va invece vissuta pienamente come un dono dal quale trarre giovamento. La sofferenza va accolta e donata amando chi soffre con te pur non soffrendo come te. Donando quando non si hanno le forze per farlo; abbracciando continuamente l’altro quando le ossa sono fragili e il dolore di un movimento può essere talmente forte da togliere il respiro. Questo significa amare liberamente Cristo nel riconoscerlo pienamente. E questo è quanto noi stessi non dobbiamo mai scordare.

C’è una quarta parola: bellezza. Mio zio stesso ne ha ricordato la potenza in un suo scritto, quando sottolineava come fosse forte il significato evangelico di quella parola: è bello perchè è buono. E quindi ciò che è buono è bello, e non può essere diversamente.
Tutti conosciamo quanto don Gino stesso ha insegnato in tal senso: nella spiegazione dei testi, nella esaltazione dell’arte come strumento di conoscenza e di miglioramento del singolo, nella tensione verso l’alto pretesa attraverso lo sforzo continuo teso a superare i propri limiti. E questi limiti, forse difficili da superare per molti singolarmente, erano poca cosa per questa comunità parrocchiale. Anzi, ci compiacevamo, tutti insieme, di quanto fossimo bravi a abbattere muri così alti da sembrare impossibili. La bellezza stava anche in questo. Come stava nei gesti della tradizione, nelle feste dell’anno liturgico, nella elevazione della contemplazione come massima espressione dell’amore verso Dio.
E allora, per chiudere, proverò a rispondere a quella domanda che mi sono fatto in questi giorni e a spiegarvi il perchè di quel termine: riconciliazione.

Troppo a lungo questa comunità parrocchiale è stata orfana. Orfana di un padre troppo amato e di una chiesa, Sant’Andrea, che d’improvviso ha chiuso le sue porte per aprirle solo oggi. Era quasi come se questa storia dovesse andare così. In psicologia potrebbero dirci che siamo stati messi nelle condizioni migliori per elaborare il nostro lutto. É vero. Ma io temo anche che siamo stati messi nelle condizioni migliori per disperdere la nostra forza. E mi domando perchè.

Quando Sant’Andrea ha chiuso per essere finalmente restaurata, a lungo molti di noi si sono domandati molte cose. A cominciare dal perchè tutto sia accaduto in assenza di don Gino Spadaro. Forse ho delle risposte e non so se siano giuste, ma so solo che è stata la volontà del Signore e dunque va bene così.
La chiesa oggi è bella, lucente. Si sono scoperte delle cose che, lasciatemelo dire, mio zio insieme a Luigi, Esther, Mariangela, alcuni dei ragazzi che lo hanno circondato in questi anni, io stesso, sapevamo già.

[…] Bene, oggi a casa ci siamo di nuovo, riconciliati l’un l’altro tra noi; riconciliati con i luoghi della nostra memoria comune. Riconciliati con il ricordo di un sacerdote, don Gino Spadaro, che è stata forza nel nostro cammino».